Pena e coscienza della colpa La redenzione di Dostoevskij
«Dostoevskij fu discepolo di galeotti», affermò una volta Piero Gobetti, volendo sottolineare in tal modo la sensibilità dello scrittore russo per le vicende giudiziarie, con un particolare riguardo...
«Dostoevskij fu discepolo di galeotti», affermò una volta Piero Gobetti, volendo sottolineare in tal modo la sensibilità dello scrittore russo per le vicende giudiziarie, con un particolare riguardo verso le condizioni degli ergastolani, ma più specificamente con un occhio al tema della pena che non contribuisce alla coscienza della propria colpevolezza.
Famose sono le considerazioni ne’ “Memorie dalla casa dei morti” circa il lavoro nella prigione, forzato, sotto la minaccia del bastone, tanto più miserevole in quanto obbligato; o anche la riflessione sulla assoluta mancanza di riservatezza insita alla coabitazione coatta in ambienti comuni e cellulari, nei quali la segregazione era pena proprio nella misura della mescolanza annichilente (Cattaneo).
Più tranciante ancora il giudizio di valore sulla pena di morte: «Un oltraggio all’anima e niente più. Un omicidio in base ad una sentenza, incomparabilmente più atroce che l’omicidio del malfattore».
Ove, poi, Dostoevskji esprime meglio la sua concezione di riforma del diritto penale, sotto la spinta dell’interesse per una disciplina meglio caratterizzata da maggiore spirito umanitario, nel senso dell’osservazione del piano morale dei rei, della loro sofferenza, cioè, di quel turbamento interiore che conduce all’emenda quale bisogno stesso della pena che deve sorgere consapevolmente nell’animo del colpevole- una volta presa coscienza della responsabilità- e, al contempo descrivendo l’incapacità del sistema dell’epoca di affrontarne gli aspetti ordinamentali e pedagogici, è nell’idea di contrapposizione fra «pena meccanica e punizione vera» (Mancini) esposta ne I fratelli Karamazov.
La storia. Il fulcro è la colpa e, conseguentemente, il momento, l’occasione, il motivo del considerarsi colpevole. Tanto che un interrogativo fondamentale - che trova esaltazione nella frammistione tra letteratura e diritto - è il tema della condotta punibile di colui che, non partecipe materiale del delitto, possa essere comunque ritenuto l’ispiratore morale del fatto illecito altrui.
«Tutto è permesso» è la frase di Ivan, l’ateo dei fratelli Karamazov, che si trasforma in quello spartiacque per niente solido che ogni giudice si trova nella vita ad affrontare prima o poi: il dover distinguere tra il cattivo maestro, perturbatore di sentimenti e la condotta cosciente e volontaria - connotata dall’elemento psicologico del dolo - idonea a determinare il proposito del crimine dell’esecutore materiale. La storia, dunque. Peraltro, di un processo culminato con un errore giudiziario.
Quattro fratelli, figli dello stesso padre volgare, violento e dissoluto, nati da madri diverse: Dmitrij, che desidera la morte del genitore; Ivan, ateo e nichilista, il teorico del «tutto è permesso»; Aleksej, semplice ed idealista; Smerdjakov; influenzabile e dal carattere rancoroso. Chi dei quattro ha ucciso il padre? Dmitrij, che innamorato della donna che il padre stesso vorrebbe per sé, ne ha decantato la assoluta necessità? Ivan, che, mosso da cieco ateismo, l’ha ispirata? Smerdjakov, che non riesce a tenere a bada la propria ira? Aleksej sarà l’unico esente da sospetto. L’autore materiale è il solo Smerdjakov, ma Dmitrij verrà raggiunto dall’accusa ingiusta che non proverà nemmeno a contrastare perché, maturata in lui la responsabilità «dell’uomo nuovo», vorrà, addossandosi la colpa, dimostrare «che tutti sono colpevoli per tutti». Intanto, Smerdjakov verrà trovato morto suicida.
Molti critici sono concordi nel ritenere che mentre le questioni relative al delitto (il rimorso, la colpa, la redenzione) sono una costante in Dostoevskij de’ “L’idiota”, de’ “I demoni”, di “Delitto e castigo” (soprattutto qui, nel senso che basti pensare al paradigma quasi scolastico della pianificazione ossessiva dell’assassinio dell’usuraia, all’eliminazione delle prove, alla descrizione della mente criminale!), è ne’ “I fratelli Karamazov” che addirittura la criminologia (la disciplina che ha iniziato a studiare il crimine e il delinquente) prende i primi passi.
Alla fine del XIX secolo si impose la Scuola positiva e le teorie (discutibili e fortunatamente superate) secondo cui l’uomo nasce delinquente e il discrimine consiste, tra l’altro, in alcune caratteristiche fisiche (Lombroso), nonché a tenore delle quali è la società a produrre i delinquenti. Si ricordi ad esempio la figura di Dmitrj, che è si un delinquente nato, ma lo è anche per colpa dell’ambiente sociale in cui vive; piuttosto che anche agli altri fratelli, i quali «nel sangue avrebbero l’insetto» del crimine.
Il delitto, dunque, non poteva non essere commesso, visto l’ambiente sociale in cui era maturato: questa la conclusione della pseudoscienza della criminologia. Non la grande intuizione di Dostoevskij, il quale anticipò l’enorme dilemma penalistico del dominio della libertà nell’azione umana sul crinale dell’incerto confine tra colpa morale e responsabilità giuridica.
Giuridicamente, Ivan non ha assassinato suo padre, né ha istigato Smerdijakov a farlo; ma nella critica morale di se stesso si muove la sua condanna. Si trae, insomma, la lezione (momentaneamente inquinata dalla criminologia all’epoca, ma dai tanti criminologi da salotto televisivo ai giorni nostri) secondo cui il diritto penale non deve intervenire sulle intenzioni, nel tentativo pericoloso di punire la malvagità quale concetto personologico, quanto invece concrete condotte realmente lesive degli anelli congiungenti la convivenza sociale e civile. I pensieri non sono mai azioni!.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Famose sono le considerazioni ne’ “Memorie dalla casa dei morti” circa il lavoro nella prigione, forzato, sotto la minaccia del bastone, tanto più miserevole in quanto obbligato; o anche la riflessione sulla assoluta mancanza di riservatezza insita alla coabitazione coatta in ambienti comuni e cellulari, nei quali la segregazione era pena proprio nella misura della mescolanza annichilente (Cattaneo).
Più tranciante ancora il giudizio di valore sulla pena di morte: «Un oltraggio all’anima e niente più. Un omicidio in base ad una sentenza, incomparabilmente più atroce che l’omicidio del malfattore».
Ove, poi, Dostoevskji esprime meglio la sua concezione di riforma del diritto penale, sotto la spinta dell’interesse per una disciplina meglio caratterizzata da maggiore spirito umanitario, nel senso dell’osservazione del piano morale dei rei, della loro sofferenza, cioè, di quel turbamento interiore che conduce all’emenda quale bisogno stesso della pena che deve sorgere consapevolmente nell’animo del colpevole- una volta presa coscienza della responsabilità- e, al contempo descrivendo l’incapacità del sistema dell’epoca di affrontarne gli aspetti ordinamentali e pedagogici, è nell’idea di contrapposizione fra «pena meccanica e punizione vera» (Mancini) esposta ne I fratelli Karamazov.
La storia. Il fulcro è la colpa e, conseguentemente, il momento, l’occasione, il motivo del considerarsi colpevole. Tanto che un interrogativo fondamentale - che trova esaltazione nella frammistione tra letteratura e diritto - è il tema della condotta punibile di colui che, non partecipe materiale del delitto, possa essere comunque ritenuto l’ispiratore morale del fatto illecito altrui.
«Tutto è permesso» è la frase di Ivan, l’ateo dei fratelli Karamazov, che si trasforma in quello spartiacque per niente solido che ogni giudice si trova nella vita ad affrontare prima o poi: il dover distinguere tra il cattivo maestro, perturbatore di sentimenti e la condotta cosciente e volontaria - connotata dall’elemento psicologico del dolo - idonea a determinare il proposito del crimine dell’esecutore materiale. La storia, dunque. Peraltro, di un processo culminato con un errore giudiziario.
Quattro fratelli, figli dello stesso padre volgare, violento e dissoluto, nati da madri diverse: Dmitrij, che desidera la morte del genitore; Ivan, ateo e nichilista, il teorico del «tutto è permesso»; Aleksej, semplice ed idealista; Smerdjakov; influenzabile e dal carattere rancoroso. Chi dei quattro ha ucciso il padre? Dmitrij, che innamorato della donna che il padre stesso vorrebbe per sé, ne ha decantato la assoluta necessità? Ivan, che, mosso da cieco ateismo, l’ha ispirata? Smerdjakov, che non riesce a tenere a bada la propria ira? Aleksej sarà l’unico esente da sospetto. L’autore materiale è il solo Smerdjakov, ma Dmitrij verrà raggiunto dall’accusa ingiusta che non proverà nemmeno a contrastare perché, maturata in lui la responsabilità «dell’uomo nuovo», vorrà, addossandosi la colpa, dimostrare «che tutti sono colpevoli per tutti». Intanto, Smerdjakov verrà trovato morto suicida.
Molti critici sono concordi nel ritenere che mentre le questioni relative al delitto (il rimorso, la colpa, la redenzione) sono una costante in Dostoevskij de’ “L’idiota”, de’ “I demoni”, di “Delitto e castigo” (soprattutto qui, nel senso che basti pensare al paradigma quasi scolastico della pianificazione ossessiva dell’assassinio dell’usuraia, all’eliminazione delle prove, alla descrizione della mente criminale!), è ne’ “I fratelli Karamazov” che addirittura la criminologia (la disciplina che ha iniziato a studiare il crimine e il delinquente) prende i primi passi.
Alla fine del XIX secolo si impose la Scuola positiva e le teorie (discutibili e fortunatamente superate) secondo cui l’uomo nasce delinquente e il discrimine consiste, tra l’altro, in alcune caratteristiche fisiche (Lombroso), nonché a tenore delle quali è la società a produrre i delinquenti. Si ricordi ad esempio la figura di Dmitrj, che è si un delinquente nato, ma lo è anche per colpa dell’ambiente sociale in cui vive; piuttosto che anche agli altri fratelli, i quali «nel sangue avrebbero l’insetto» del crimine.
Il delitto, dunque, non poteva non essere commesso, visto l’ambiente sociale in cui era maturato: questa la conclusione della pseudoscienza della criminologia. Non la grande intuizione di Dostoevskij, il quale anticipò l’enorme dilemma penalistico del dominio della libertà nell’azione umana sul crinale dell’incerto confine tra colpa morale e responsabilità giuridica.
Giuridicamente, Ivan non ha assassinato suo padre, né ha istigato Smerdijakov a farlo; ma nella critica morale di se stesso si muove la sua condanna. Si trae, insomma, la lezione (momentaneamente inquinata dalla criminologia all’epoca, ma dai tanti criminologi da salotto televisivo ai giorni nostri) secondo cui il diritto penale non deve intervenire sulle intenzioni, nel tentativo pericoloso di punire la malvagità quale concetto personologico, quanto invece concrete condotte realmente lesive degli anelli congiungenti la convivenza sociale e civile. I pensieri non sono mai azioni!.
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