L’atto gratuito e il giudizio penale Il mistero del “delitto dell’anima”
«Ma oggi so per esperienza che una cosa è ascoltare un verdetto, un’altra aiutare di persona a rendere giustizia. Certo, sono persuaso che una comunità non può fare a meno di tribunali e giudici; ma...
«Ma oggi so per esperienza che una cosa è ascoltare un verdetto, un’altra aiutare di persona a rendere giustizia. Certo, sono persuaso che una comunità non può fare a meno di tribunali e giudici; ma a che punto la giustizia umana sia dubbia e precaria, l’ho potuto sentire per dodici giorni consecutivi, fino all’angoscia».
Frase d’apertura dei “Ricordi della Corte d’Assise” di André Gide, ma soprattutto resoconto, e al contempo anticipazione, della trama del romanzo che l’Autore volle fortemente mosso dall’interesse sempre coltivato per il mondo del giudiziario, sia per tradizione familiare (il padre giurista e la madre appartenente ad una famiglia di magistrati), sia per “ordinare” l’esperienza vissuta personalmente, quale giurato di corte d’assise della città di Rouen nel 1912.
Una raccolta tutta particolare di cronache, suggestioni personali, ritratti abbozzati, ricavati appunto dall’esperienza di giurato con il dichiarato intento di ammonire e svelare il mistero della macchina della giustizia (in una edizione italiana si affermerà, infatti, che «la materia è da processo a porte chiuse, ma Gide le spalanca, le scardina; e anche i giudici, giurati, lui stesso, passano sotto processo»).
I “souvenirs” nascono dagli appunti stesi durante le sedute del tribunale non per intrattenere. Piccoli furti, qualche rapina, moltissima violenza rozza e animalesca, soprattutto sessuale contro i più indifesi. Il dato notabile è che in cima è la violenza ultima del tribunale stesso!. E questa sembra, dai ricordi di Gide, semplicemente chiudere una catena gerarchica di brutalità, non in difesa della vittima debole tra i deboli, semmai a suggello di quella gerarchia: a dotarla di ordine e di senso.
Gide si presenta così come un osservatore con le bisacce vuote di certezze sull’andamento del processo ed in particolare sugli esiti, ma soprattutto costantemente evidenziando la fallacia di chi voglia negare il rischio di errore consustanziale al giudicare.
Come si diceva, i temi della giustizia sono dunque cari a Gide.
Tra essi il delicatissimo rapporto tra il diritto penale e la psichiatria forense, affrontato nel turbinio di decisioni giudiziali adottate sul labile confine che vede in modo incerto separare la normalità dalla follia, nella ricerca dei motivi a delinquere.
“L’atto gratuito” che, allora, muove l’animo verso il reato è un campo interessantissimo di ricerca di Gide. Facendo calare le maschere dal viso- come sosteneva Montaigne (suo ispiratore)- Gide mette a nudo le tragiche conseguenze (o presupposti?) delle intermittenze della ragione, spesso rinvenute anche nei più banali casi giudiziari o in drammatici, quanto incomprensibili, fatti sangue; la problematica animò un acceso dibattito dalle altissime vette culturali negli anni Settanta, che tentò di perscrutare a fondo colpa e giudizio sul crinale tra norma e follia (tra tutti, Foucault).
L’atto gratuito è il campo di ricerca tra psicologia e responsabilità penale; ricerca che scende giù nel buio dell’inspiegabile e dell’incontenibile delle pulsioni contrarie al raziocinio.
Di fascino indubitabile ed estremo, un tale terreno di confronto è stato seminato ad esempio dall’opera di Camus (Lo straniero) con il fertilizzante della riflessione sulla fenomenologia dell’assurdo, allorché viene raccontato “l’atto” senza spiegazione alcuna di Mersault che ammazza su una spiaggia un arabo e si lascia condannare con olimpico distacco senza fornire una giustificazione; ma anche nell’Erostrato di Sartre si rinviene il ricorso all’interrogativo dell’atto gratuito, quando l’intellettuale francese compara il gesto dell’Erostrato greco (l’incendio del tempio di Efeso solo per l’imperitura fama) con il protagonista del suo racconto Le mur (a sua volta e non per caso di nome Erostrato) che vorrà a tutti i costi un delitto immotivato, se non dall’ansia della celebrità. Sartre, a proposito della “gratuità” del gesto porrà significativamente (nel senso di fare intendere l’inutilità di atti che vogliano liberare per condurre invece al contrario alla negazione della libertà) il protagonista in un cesso.
Questi ed altri ancora gli orizzonti di Gide e degli scrittori che sul “delitto dell’anima” si sono interrogati e ci interrogano.
Essi aprono la mente anche su fatti recenti, tra cui (il parallelismo arguto è di Marafioti) il caso di Marta Russo, la studentessa uccisa all’Università La Sapienza per la sfida di lisciare il pelo al delitto perfetto.
Sondare, in definitiva, l’animo umano è arduo; qualcuno (sempre Marafioti) sostiene che la letteratura che si è occupata di questo ha fatto meglio intendere che si tratti di un mistero e che tale non sempre i tribunali riescono nemmeno a sfiorare.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Frase d’apertura dei “Ricordi della Corte d’Assise” di André Gide, ma soprattutto resoconto, e al contempo anticipazione, della trama del romanzo che l’Autore volle fortemente mosso dall’interesse sempre coltivato per il mondo del giudiziario, sia per tradizione familiare (il padre giurista e la madre appartenente ad una famiglia di magistrati), sia per “ordinare” l’esperienza vissuta personalmente, quale giurato di corte d’assise della città di Rouen nel 1912.
Una raccolta tutta particolare di cronache, suggestioni personali, ritratti abbozzati, ricavati appunto dall’esperienza di giurato con il dichiarato intento di ammonire e svelare il mistero della macchina della giustizia (in una edizione italiana si affermerà, infatti, che «la materia è da processo a porte chiuse, ma Gide le spalanca, le scardina; e anche i giudici, giurati, lui stesso, passano sotto processo»).
I “souvenirs” nascono dagli appunti stesi durante le sedute del tribunale non per intrattenere. Piccoli furti, qualche rapina, moltissima violenza rozza e animalesca, soprattutto sessuale contro i più indifesi. Il dato notabile è che in cima è la violenza ultima del tribunale stesso!. E questa sembra, dai ricordi di Gide, semplicemente chiudere una catena gerarchica di brutalità, non in difesa della vittima debole tra i deboli, semmai a suggello di quella gerarchia: a dotarla di ordine e di senso.
Gide si presenta così come un osservatore con le bisacce vuote di certezze sull’andamento del processo ed in particolare sugli esiti, ma soprattutto costantemente evidenziando la fallacia di chi voglia negare il rischio di errore consustanziale al giudicare.
Come si diceva, i temi della giustizia sono dunque cari a Gide.
Tra essi il delicatissimo rapporto tra il diritto penale e la psichiatria forense, affrontato nel turbinio di decisioni giudiziali adottate sul labile confine che vede in modo incerto separare la normalità dalla follia, nella ricerca dei motivi a delinquere.
“L’atto gratuito” che, allora, muove l’animo verso il reato è un campo interessantissimo di ricerca di Gide. Facendo calare le maschere dal viso- come sosteneva Montaigne (suo ispiratore)- Gide mette a nudo le tragiche conseguenze (o presupposti?) delle intermittenze della ragione, spesso rinvenute anche nei più banali casi giudiziari o in drammatici, quanto incomprensibili, fatti sangue; la problematica animò un acceso dibattito dalle altissime vette culturali negli anni Settanta, che tentò di perscrutare a fondo colpa e giudizio sul crinale tra norma e follia (tra tutti, Foucault).
L’atto gratuito è il campo di ricerca tra psicologia e responsabilità penale; ricerca che scende giù nel buio dell’inspiegabile e dell’incontenibile delle pulsioni contrarie al raziocinio.
Di fascino indubitabile ed estremo, un tale terreno di confronto è stato seminato ad esempio dall’opera di Camus (Lo straniero) con il fertilizzante della riflessione sulla fenomenologia dell’assurdo, allorché viene raccontato “l’atto” senza spiegazione alcuna di Mersault che ammazza su una spiaggia un arabo e si lascia condannare con olimpico distacco senza fornire una giustificazione; ma anche nell’Erostrato di Sartre si rinviene il ricorso all’interrogativo dell’atto gratuito, quando l’intellettuale francese compara il gesto dell’Erostrato greco (l’incendio del tempio di Efeso solo per l’imperitura fama) con il protagonista del suo racconto Le mur (a sua volta e non per caso di nome Erostrato) che vorrà a tutti i costi un delitto immotivato, se non dall’ansia della celebrità. Sartre, a proposito della “gratuità” del gesto porrà significativamente (nel senso di fare intendere l’inutilità di atti che vogliano liberare per condurre invece al contrario alla negazione della libertà) il protagonista in un cesso.
Questi ed altri ancora gli orizzonti di Gide e degli scrittori che sul “delitto dell’anima” si sono interrogati e ci interrogano.
Essi aprono la mente anche su fatti recenti, tra cui (il parallelismo arguto è di Marafioti) il caso di Marta Russo, la studentessa uccisa all’Università La Sapienza per la sfida di lisciare il pelo al delitto perfetto.
Sondare, in definitiva, l’animo umano è arduo; qualcuno (sempre Marafioti) sostiene che la letteratura che si è occupata di questo ha fatto meglio intendere che si tratti di un mistero e che tale non sempre i tribunali riescono nemmeno a sfiorare.
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