In nome del “popolo di Dio” quarant’anni di (cre)azioni

Antipavimenti, grandi vasi e Signore sedie: attraverso la ceramica il racconto di un poeta “manovale” che ha reso vivo il museo e moltiplicato la città

di Barbara Cangiano

VIETRI SUL MARE

Le nostre arti, vivono di tempi lunghi, come le foreste, diceva Luciano Berio. Le nostre città, sono nate per sopravviverci. I nostri artisti, per sbrindellare e riammagliare i tessuti delle relazioni socio-culturali che le abitano. Ugo Marano - a cui la Provincia ed il Frac di Baronissi dedicano una mostra che apre oggi i battenti a Villa Guariglia, a Raito - è stato probabilmente il più visionario tra i protagonisti di una sperimentazione artistica che dagli anni Settanta al 2011, data della sua morte, ha cambiato più volte pelle, passando da provocazioni mai “cosmetiche” (come il fasi trovare a letto, dormiente, all’ingresso del teatro Verdi in occasione di uno spettacolo della rassegna Nuove Tendenze) alle rielaborazioni dei concetti canonici di materia e scultura (le celebri “ruginazioni”), dal recupero di un mito primigenio e densamente musicale (I vasi del terzo millennio) alla risemantizzazione dei luoghi della vita dell’uomo, inseguendo il progetto della “Città moltiplicata” con un piglio per certi versi parmenideo: la stessa cosa sono il pensare e la cosa pensata, esistenza-essere ed Ente sembrano così fare da specchio a vita-morte-interdipendenza.

“Il popolo di Dio e altra ceramica” è il titolo scelto dal critico d’arte e curatore dell’esposizione, Massimo Bignardi, per raccontare un artista che ha saputo essere al tempo stesso poeta e manovale, nel solco di una «radicalità positiva» sempre inseguita. Il percorso è assolutamente eterogeneo, ma al tempo stesso stilisticamente coerente, perchè tagliato prevalentemente su un segmento, quello della ceramica. «L’aver superato, nel 1968, la reticenza verso la ceramica - osserva Bignardi - spiega la sua decisa volontà di andare oltre, ossia di evitare ogni paludamento nella tradizione, tale da spingerla a mostrare i fili più vivi verso un rinnovamento della “lingua” che nel suo caso si dà viva e mutevole».

Ecco dunque la poco nota “fiaschetta”, l’Antipavimento 1, conosciuto anche come Mare di terracotta, ossia una sequenza modulare di piastrelle (assunta poi come elemento di provocazione urbana nell’azione tenuta all’ingresso del Massimo cittadino), fino alle Signore sedie che Marano amava chiamare Il popolo di Dio: sessanta piccole sedute in terracotta a cui è affidata la narrazione dei suoi viaggi, dei suoi incontri, dei volti che gli hanno graffiato il cuore. Furono esposte nel 1982 a Caltagirone, nell’ambito di una rassegna curata da Filiberto Menna e diventarono il simbolo, scrisse Gillo Dorfles, di una fusione «dove la qualità artigianale si sposa alla immaginosità fantastica». In chiusura due grandi vasi realizzati nei primi del Duemila. Nel mezzo, le installazioni che hanno caratterizzato con forza dirompente gli anni Settanta e Ottanta, contribuendo a trascinare successivamente l’artista originario di Capriglia, fin nelle sale del Centre Pompidou (dove nel 1982 espose il suo Manifeste du livre d’Artiste), al Carrousel du Louvre (1995), all’olandese Groninger museum (1990), dopo una militanza a Biennali e Triennali e prima di progetti di rielaborazione dei perimetri urbani (e culturali) pensati con l’economista Pasquale Persico.

E’ infatti nei “fortunati” anni della cultura salernitana dei Menna, dei Sanguineti, dei Crispolti, dei Mango, che esplode il segno di Marano. C’era anche lui, giovanissimo, il 5 ottobre del 1974, al civico 8 di via Torino, a Mercato S.Severino dove, dinanzi ad una platea più sgomenta che curiosa, si alzò il sipario su “Taide spazio per”, una galleria “multitasking” nella quale si poteva inciampare nei lavori di Joseph Beuys e Sol Lewitt, come nelle sperimentazioni musicali di John Cage e Stockhausen, con il quale l’artista salernitano collaborò, inseguendo la sua idea radical-concettuale del Museo Vivo, opificio della ceramica basato su una architettura esistenziale, che oggi ricorda per certi versi la progettazione come arte sociale di Renzo Piano. In quella fucina di idee e talenti, aperta nella Valle dell’Irno da Angelomichele Risi, Pietro Lista e Giuseppe Rescigno, Marano ha saputo farsi perno di una rivoluzione utopica, diventando uno dei protagonisti del Gruppo Salerno 75, in cui confluì con Antonio Davide e Rescigno, dopo la scissione da Taide.

Sono gli anni delle “sculturazioni”, di Gubbio 76, con la ri-animazione della città e la piazza trasformata in spazio amoroso con tanto di specchio propiziatorio; di progetti come Gessificare; di partecipazioni eccellenti (Martina Franca, la Triennale di Milano del ’79, la Biennale di Venezia nell’80 sul tema tempo-museo-memoria/ritmo-acqua-Venezia) e di exploit dalla matrice politico-sociale che sembrano rimandare al Saggio sulla liberazione di Herbert Marcuse. E’ il caso della “libera partecipazione” del Gruppo al progetto Venezia e il Mulino Stucky, nell’ambito di un concorso internazionale di idee bandito nel ’75. Tra gli “schizzi” di Kounellis, Merz e Tinguely, arrivò anche quello, atipico, di Davide, Rescigno e Marano: il sogno del trasferimento dalla Giudecca in Puglia, di quell’antica cattedrale gotica che negli anni Cinquanta cessò di essere un tempio della produttività. Come risarcimento, a ritroso nella memoria, per la politica del Doge e del suo Consilio. Ed occasione di riscatto per un Mezzogiorno che voleva cambiare.

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