Il caso Mortara e il conflitto tra Fede e Diritto
Il processo sul battesimo in punto di morte al figlio di una famiglia ebrea a cui fu poi sottratto e portato a Roma dal Papa
Qualche settimana fa, al Festival del Cinema di Cannes, è stata presentata in Concorso l’ultima fatica di Marco Bellocchio, il regista che ha dedicato gran parte della propria produzione a raccontare frammenti della storia d’Italia, spesso concentrandosi su quelli sui quali risulta intatto il velo del dubbio, della menzogna o dell’accomodamento (tra le tante opere di Bellocchio: “Sbatti il mostro in prima pagina”; “La Condanna”; “L’ora di Religione”; “Buongiorno Notte”; “Esterno Notte”).
“Rapito” è l’ultima fatica del regista, e racconta di un processo celebrato nella Bologna della seconda metà dell’Ottocento, e pone al centro della scena una domanda: se la fede possa infrangere - è questo il punto di vista del regista - i più elementari diritti di un essere umano e perfino ignorare le primarie necessità dettate dal naturale buon senso laddove trovi conforto nelle norme di un codice e nella sentenza liberatoria di un processo.
Al centro della storia la vicenda di Edgardo Mortara, bolognese che nel giugno del 1858, a sei anni, fu sottratto alla famiglia per ordine di papa Pio IX e condotto a Roma.
Edgardo era di famiglia ebrea ed era stato battezzato all’insaputa dei genitori da una domestica cristiana, che vedendolo malato l’aveva creduto in pericolo di vita.
La domestica aveva agito in virtù di un decreto pontificio che consentiva, e consente a chiunque di celebrare in extremis il rito del Battesimo per salvare l’anima del moribondo: bastano poche gocce d’acqua e la formula “Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo“.
La vicenda prosegue con il racconto dei numerosi e vani tentativi dei genitori di riportare a casa il figlio Edgardo, e del processo indetto dal primo tribunale, competente per territorio, di una Bologna già italiana.
Le iniziative coltivate dai genitori si rivelarono infruttuose; la condotta degli uomini che avevano sottratto Edgardo alla famiglia, in nome del comando pontificio, fu dichiarata legittima dalla Corte felsinea. Gli autori del rapimento vennero assolti, perché ogni loro atto era stato conforme alla Legge pontificia del tempo del Fatto.
L’opinione pubblica del tempo fu concorde nell’affermare l’illegittimità e la riprovevolezza della sottrazione del bambino alla famiglia. Non è eccessivo definire, per i riverberi che la vicenda e la sentenza provocarono nei rapporti tra Stato e Chiesa e nell’opinione pubblica, il Caso Mortara come il Caso Dreyfuss italiano. Legge e sentimenti non sempre si incontrano; spesso i sentimenti inducono ad una valutazione dei fatti che suona distonica rispetto alle norme dei Codici, che sono simili alle note su una partitura, alle quali soltanto gli Interpreti, e non la pubblica opinione, danno il suono.
Proviamo dunque a metterci dal lato dei Giudici e della Chiesa, ed esaminare le ragioni che legittimarono il rapimento e la sentenza di assoluzione degli Autori del fatto.
Tenere una condotta obbligatoria, prescindendo dai sentimenti; fu questa la tesi del Papa, sintetizzata dalle parole: «Avevo il diritto e l’obbligo di fare ciò che ho fatto per questo ragazzo, e se dovessi farlo lo farei di nuovo»; fu questa la linea di difesa accolta dalle motivazioni del Tribunale bolognese.
Secondo la dottrina della Chiesa, e secondo la legge naturale, i genitori hanno il diritto primario ad educare i figli. Per questa ragione il Codice di Diritto canonico stabilisce che è vietato battezzare a forza un bambino contro la volontà di entrambi i genitori.
Il caso del piccolo Mortara, invero, non era innescato da un battesimo forzato, ma dall’iniziativa di una domestica che, in ragione di una norma del diritto canonico, aveva battezzato un bambino ritenuto in pericolo di morte.
Accertato il fatto storico, sul quale Genitori e Chiesa erano concordi, veniamo al punto di dubbio: arrogarsi il diritto di educare un bambino ai principi cristiani, laddove questi abbia ricevuto il battesimo in prossimità della morte, poteva essere considerato un abuso da parte della Chiesa? Cosa accade se un bimbo a cui è stato amministrato il battesimo in punto di morte, non muore, ma si salva?
La Chiesa, fu questa la difesa, rispetta la legge naturale, che attribuisce l’educazione dei figli ai genitori, ma non può trascurare quella soprannaturale: la salvezza delle anime prevale su ogni altra considerazione.
La risposta della Chiesa dunque, in conformità, è che essendo entrato a far parte con il battesimo del Corpo di Cristo, che è una società visibile, con le sue leggi, i suoi doveri e i suoi diritti, il bambino ha il diritto ad essere educato nella fede che ha ricevuto, e la Chiesa ha il dovere di assicurargli una educazione conforme alla Fede cattolica nella quale è stato battezzato.
Nel caso di rifiuto dei Genitori, la Chiesa ha diritto di sostituirsi alla famiglia, perché i diritti della famiglia (che appartengono all’ordine naturale) vengono surclassati dal superiore diritto della Chiesa (che appartiene all’ordine soprannaturale). La tesi venne accolta, ed i genitori rimasero soccombenti.
Il caso Mortara, guardato con gli occhi e i sentimenti, aderendo alla frustrazione che dovettero provare i genitori del piccolo Edgardo, spingerebbe ad una valutazione riprovevole degli autori del rapimento. Ma la valutazione di una condotta, di un fatto, non può prescindere dalla lettura e dalla interpretazione delle norme di copertura, anche se la condotta, legittimata, parrebbe riprovevole e censurabile.
Nel caso Mortara, le norme condussero alla piena legittimazione della condotta degli autori del sequestro; le vicende successive del giovane Edgardo, pure sembrerebbero legittimare l’ostinazione pontificia. Il ragazzo entrò nel noviziato dei Canonici Regolari Lateranensi; dopo la breccia di Porta Pia i genitori tentarono di riavere il figlio, ma Edgardo rifiutò di tornare in famiglia.
Il Questore di Roma, a dar manforte al nuovo tentativo dei genitori, si presentò nel convento di San Pietro in Vincoli, chiedendo al ragazzo di lasciare quella vita; anche qui un nuovo rifiuto.
Per sottrarsi ad altri tentativi Edgardo lasciò Roma e si recò prima in Tirolo nell'abbazia di Novacella, poi in Francia dove venne ordinato sacerdote all'età di ventitré anni con il nome di Pio. Venne poi inviato come missionario in Germania, a Monaco di Baviera, Magonza, Breslavia, per convertire gli ebrei. Tornò in Italia e tenne una serie di conferenze; ristabilì i contatti con la madre e i fratelli e tentò di convertirli.
Nel 1897 si recò negli Stati Uniti, anche qui per tentare un’opera di evangelizzazione di Ebrei americani, scontando la ferma opposizione della Chiesa locale che invitò il Vaticano a richiamare in Europa Mortara che morì, cattolico fervente ed evangelizzatore, a Liegi nel 1940, dopo aver passato l’ultima parte della sua vita in un monastero Belga.
*avvocato
©RIPRODUZIONE RISERVATA
“Rapito” è l’ultima fatica del regista, e racconta di un processo celebrato nella Bologna della seconda metà dell’Ottocento, e pone al centro della scena una domanda: se la fede possa infrangere - è questo il punto di vista del regista - i più elementari diritti di un essere umano e perfino ignorare le primarie necessità dettate dal naturale buon senso laddove trovi conforto nelle norme di un codice e nella sentenza liberatoria di un processo.
Al centro della storia la vicenda di Edgardo Mortara, bolognese che nel giugno del 1858, a sei anni, fu sottratto alla famiglia per ordine di papa Pio IX e condotto a Roma.
Edgardo era di famiglia ebrea ed era stato battezzato all’insaputa dei genitori da una domestica cristiana, che vedendolo malato l’aveva creduto in pericolo di vita.
La domestica aveva agito in virtù di un decreto pontificio che consentiva, e consente a chiunque di celebrare in extremis il rito del Battesimo per salvare l’anima del moribondo: bastano poche gocce d’acqua e la formula “Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo“.
La vicenda prosegue con il racconto dei numerosi e vani tentativi dei genitori di riportare a casa il figlio Edgardo, e del processo indetto dal primo tribunale, competente per territorio, di una Bologna già italiana.
Le iniziative coltivate dai genitori si rivelarono infruttuose; la condotta degli uomini che avevano sottratto Edgardo alla famiglia, in nome del comando pontificio, fu dichiarata legittima dalla Corte felsinea. Gli autori del rapimento vennero assolti, perché ogni loro atto era stato conforme alla Legge pontificia del tempo del Fatto.
L’opinione pubblica del tempo fu concorde nell’affermare l’illegittimità e la riprovevolezza della sottrazione del bambino alla famiglia. Non è eccessivo definire, per i riverberi che la vicenda e la sentenza provocarono nei rapporti tra Stato e Chiesa e nell’opinione pubblica, il Caso Mortara come il Caso Dreyfuss italiano. Legge e sentimenti non sempre si incontrano; spesso i sentimenti inducono ad una valutazione dei fatti che suona distonica rispetto alle norme dei Codici, che sono simili alle note su una partitura, alle quali soltanto gli Interpreti, e non la pubblica opinione, danno il suono.
Proviamo dunque a metterci dal lato dei Giudici e della Chiesa, ed esaminare le ragioni che legittimarono il rapimento e la sentenza di assoluzione degli Autori del fatto.
Tenere una condotta obbligatoria, prescindendo dai sentimenti; fu questa la tesi del Papa, sintetizzata dalle parole: «Avevo il diritto e l’obbligo di fare ciò che ho fatto per questo ragazzo, e se dovessi farlo lo farei di nuovo»; fu questa la linea di difesa accolta dalle motivazioni del Tribunale bolognese.
Secondo la dottrina della Chiesa, e secondo la legge naturale, i genitori hanno il diritto primario ad educare i figli. Per questa ragione il Codice di Diritto canonico stabilisce che è vietato battezzare a forza un bambino contro la volontà di entrambi i genitori.
Il caso del piccolo Mortara, invero, non era innescato da un battesimo forzato, ma dall’iniziativa di una domestica che, in ragione di una norma del diritto canonico, aveva battezzato un bambino ritenuto in pericolo di morte.
Accertato il fatto storico, sul quale Genitori e Chiesa erano concordi, veniamo al punto di dubbio: arrogarsi il diritto di educare un bambino ai principi cristiani, laddove questi abbia ricevuto il battesimo in prossimità della morte, poteva essere considerato un abuso da parte della Chiesa? Cosa accade se un bimbo a cui è stato amministrato il battesimo in punto di morte, non muore, ma si salva?
La Chiesa, fu questa la difesa, rispetta la legge naturale, che attribuisce l’educazione dei figli ai genitori, ma non può trascurare quella soprannaturale: la salvezza delle anime prevale su ogni altra considerazione.
La risposta della Chiesa dunque, in conformità, è che essendo entrato a far parte con il battesimo del Corpo di Cristo, che è una società visibile, con le sue leggi, i suoi doveri e i suoi diritti, il bambino ha il diritto ad essere educato nella fede che ha ricevuto, e la Chiesa ha il dovere di assicurargli una educazione conforme alla Fede cattolica nella quale è stato battezzato.
Nel caso di rifiuto dei Genitori, la Chiesa ha diritto di sostituirsi alla famiglia, perché i diritti della famiglia (che appartengono all’ordine naturale) vengono surclassati dal superiore diritto della Chiesa (che appartiene all’ordine soprannaturale). La tesi venne accolta, ed i genitori rimasero soccombenti.
Il caso Mortara, guardato con gli occhi e i sentimenti, aderendo alla frustrazione che dovettero provare i genitori del piccolo Edgardo, spingerebbe ad una valutazione riprovevole degli autori del rapimento. Ma la valutazione di una condotta, di un fatto, non può prescindere dalla lettura e dalla interpretazione delle norme di copertura, anche se la condotta, legittimata, parrebbe riprovevole e censurabile.
Nel caso Mortara, le norme condussero alla piena legittimazione della condotta degli autori del sequestro; le vicende successive del giovane Edgardo, pure sembrerebbero legittimare l’ostinazione pontificia. Il ragazzo entrò nel noviziato dei Canonici Regolari Lateranensi; dopo la breccia di Porta Pia i genitori tentarono di riavere il figlio, ma Edgardo rifiutò di tornare in famiglia.
Il Questore di Roma, a dar manforte al nuovo tentativo dei genitori, si presentò nel convento di San Pietro in Vincoli, chiedendo al ragazzo di lasciare quella vita; anche qui un nuovo rifiuto.
Per sottrarsi ad altri tentativi Edgardo lasciò Roma e si recò prima in Tirolo nell'abbazia di Novacella, poi in Francia dove venne ordinato sacerdote all'età di ventitré anni con il nome di Pio. Venne poi inviato come missionario in Germania, a Monaco di Baviera, Magonza, Breslavia, per convertire gli ebrei. Tornò in Italia e tenne una serie di conferenze; ristabilì i contatti con la madre e i fratelli e tentò di convertirli.
Nel 1897 si recò negli Stati Uniti, anche qui per tentare un’opera di evangelizzazione di Ebrei americani, scontando la ferma opposizione della Chiesa locale che invitò il Vaticano a richiamare in Europa Mortara che morì, cattolico fervente ed evangelizzatore, a Liegi nel 1940, dopo aver passato l’ultima parte della sua vita in un monastero Belga.
*avvocato
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