PASSEGGIATE NELLA STORIA

Da calderari a “boss” della Zecca brasiliana

I fratelli Farano di Sapri lavoravano il rame. Arrivati in Brasile forgiarono una moneta leggera apprezzata dall’imperatore

Con Decreto Regio del 6 novembre 1809, a decorrenza 1 gennaio 1810, Gioacchino Murat, re di Napoli, elevava Sapri alla dignità di Comune. Voleva farne, conquistato dalla sua baia, il maggiore porto commerciale e mercantile del Sud tra Napoli e Reggio Calabria. All’epoca l’odierna cittadina capofila del Golfo di Policastro era un piccolo centro, riportato sulle mappe e sulle carte nautiche quale “porto” ma considerato, di fatto, come la “marina” di Torraca e sottoposto all’amministrazione dei feudatari del territorio, dai Palamolla ai Gambacorta, dai Carafa agli Scandito. Dagli scarsi documenti dell’epoca si evince che il territorio comunale di Sapri, agli inizi dell’Ottocento, era assai esiguo (lo è, in verità, tutt’ora), incolto e piuttosto sterile. La pesca, nonostante l’abbondanza della fauna ittica e la presenza di un comodo approdo, non aveva sufficienti sbocchi commerciali e serviva solo a soddisfare il fabbisogno alimentare familiare.

L’agricoltura, per la scabrosità dei terreni, costituiva attività di poco conto e di scarso reddito, riducendosi a una modesta produzione di olio d’oliva. Una parte significativa della popolazione era dedita all’attività artigianale di “calderaio” ed esercitava questo mestiere sia fuori che dentro i confini del Regno. Questo tipo di artigianato era attivo anche in molte zone del Cilento e della limitrofa Basilicata e costituiva la fonte maggiore di reddito locale. Gli artigiani sapresi erano bravi, conosciuti e richiesti non solo nel circondario ma anche in altre regioni del Sud. Emblematico il caso dei fratelli sapresi Giuseppe e Francesco Farano, rispettivamente di 17 e 19 anni, i quali, sul finire del 1843, dal Golfo di Policastro partirono alla volta di Rio de Janeiro. Entrambi provetti lavoratori del rame e della latta, sapevano forgiare alla perfezione caldaie, pentole, contenitori e recipienti vari ma anche manufatti più complessi e impegnativi, come bracieri, attrezzi per il camino, appendiabiti, portaombrelli e persino piatti decorativi e ninnoli vari. Il loro era un mestiere girovago, che li portava in paesi e villaggi, borgate e città, anche fuori dai confini regionali.

Questo tipo di artigianato era particolarmente attivo a Sapri, dove, soprattutto nel corso del diciannovesimo secolo, era praticato da circa la metà della popolazione e costituiva la principale fonte di reddito per la scarna comunità. Gli artigiani sapresi, detti in gergo “caurarari”, cioè “calderai”, erano bravi, rinomati e molto richiesti non solo nelle numerose località del circondario ma anche in centri di molte altre regioni del Sud. Il desiderio di smettere quella vita errabonda e l’opportunità presentatasi di lavorare stabilmente in una grossa fabbrica nei pressi di Napoli, li portò alla decisione di allontanarsi dalla natia Sapri. L’esperienza, però, non si rivelò del tutto positiva. Gli scarsi guadagni e la consapevolezza che la loro professionalità, anziché essere mortificata, meritava più lauti compensi, li spinse a prendere una decisione più coraggiosa che avrebbe cambiato per sempre la loro vita. A Napoli avevano saputo che la figlia del re delle Due Sicilie Ferdinando II di Borbone, Teresa Maria Cristina, era andata da poco sposa all’imperatore del Brasile don Pedro II di Braganca, di origine portoghese.

Quel matrimonio era valso ad aprire a molti cittadini del Regno le porte del Brasile, ove trovavano facile e immediata sistemazione, date le enormi potenzialità di quella nazione sconfinata. Animati da forte spirito di iniziativa, sicuri della propria abilità e sorretti da una volontà di ferro, i fratelli Farano vollero tentare la fortuna oltreoceano. Una volta giunti in Brasile, cominciarono subito a lavorare e a far conoscere la loro bravura. Probabilmente furono i primi cilentani a stabilirsi in Brasile. Anche se altri, per motivi commerciali, erano già approdati in quelle terre, nessuno di essi era tuttavia partito con l’intenzione di stabilirvisi né vi era rimasto più del tempo necessario richiesto dal viaggio e dall’espletamento dell’incarico.

Al contrario per i fratelli Farano la scelta fu meditata e voluta. E la loro intuizione ebbe a rivelarsi felice L’imperatore don Pedro II, informato delle loro capacità e della precisione con cui lavoravano il rame, li volle alla sua corte perché dessero un nuovo stile e una diversa struttura alla moneta corrente dell’epoca, il “pitacore”, piuttosto rozzo e pesante e, quindi, scarsamente funzionale. “Peppo” e “Ciccio” Farano seppero sfruttare al meglio l’occasione, creando una moneta leggera, elegante e stlizzata che sostituì in modo veramente egregio l’antiquato “pitacore”. L’imperatore si ritenne estremamente soddisfatto e da quel momento i fratelli sapresi iniziarono una vertiginosa scalata nella gerarchia sociale del Brasile, finendo col diventare Francesco direttore e Giuseppe vicedirettore della Zecca dello Stato. La loro fama in Brasile arrivò a tal punto che a Rio de Janeiro fu loro intitolata una delle principali strade della città carioca, “Rua Irmanos Farano”.