L'ELZEVIRO

Cutro e le parole sbagliate del ministro Piantedosi

Occorre sensibilità verso la lingua del diritto. Il corretto uso del linguaggio è affidato a percorsi di formazione culturale, dai quali discende la necessità di prendersi cura delle norme e dei diritti. Nel linguaggio scorretto si rinviene la mancanza di formazione sulla corresponsabilità relazionale tra gli individui; cose che hanno a che fare con la libertà, l’eguaglianza, la qualità della vita, ma soprattutto con la costruzione dei valori, della soggettività individuale, compresa la diversità di etnie e provenienze geografiche. Primo Levi avvertiva (egli, che di parole d’ordine e di significato se ne intendeva avendo esse lasciato i segni sulla sua esistenza) che i messaggi possono essere chiari e volgari al contempo perché lingua e pensiero sono interconnessi e dunque nei messaggi ostili manca il rispetto delle persone.

La cura delle parole si accompagna infatti al riconoscimento delle emozioni e queste sempre ed inevitabilmente attraversano i diritti. A meno che. A meno che i diritti a qualcuno non si vogliano assicurare. Le parole povere del ministro Piantedosi - il sermo humilis utilizzato nei confronti dell’enormità dell’evento di Cutro - sono allora indubbiamente una sua verità, personale, politica e di provenienza culturale. Bisognava assicurare l’obiettivo del carattere divisivo della questione immigrazione e trattarla per quella che è intesa da costui: una faccenda qualsiasi di ordine pubblico, peraltro da esporre con vigoria di esperienza esemplare, memore di altri tempi.

Non si è reso conto, il ministro, che ha però attribuito a quelle parole indecenti - di fronte al dolore, alla sofferenza al lutto collettivo - un significato sovversivo dei diritti di una comunità che metta al suo centro l’umanità. Ha così disegnato l’estremo orizzonte della negazione della solidarietà costituzionale. Si è reso interprete, il ministro, di un nichilismo potestativo di una decisione - affrontare la cosa non preoccupandosi della necessità del soccorsoprivo del senso della storia, della nostra stessa storia patria (Virgilio ricorda che Roma fu fondata da un gruppo di naufraghi che scappavano da guerre e persecuzioni). Torna qui l’importanza della formazione (per chi ce l’abbia e a seconda di quale essa sia) che, come insegna Natalino irti, mette al riparo dal delirio giuridico. Diciamo pure che le parole del ministro si inseriscono allora perfettamente nell’età del risentimento che esse intendono rappresentare, età che tiene lontana l’autentica struttura dell’umano. Nell’ombra tetra di un tale scenario appare infine oscurato ciò che Dante definì per il diritto: proporzione che si pone a fondamento dei rapporti tra gli uomini (ad hominem: dappresso, vicino, insieme), la quale, finchè resta salda, conserva la società, quando si corrompe, ne provoca il disfacimento.