L'INTERVISTA
Ivan Romano, la fotografia “militante”
“Il lamento della giovane migrante” ha vinto un importante premio internazionale: «Mi interessano le storie degli ultimi»
SALERNO - Vocazione (foto)reporter. È questa la sensazione che si ha quando si incontra Ivan Romano, parafrasando il titolo di un noto film. Lui preferisce definirsi foto-giornalista, avendo approcciato il giornalismo fotografico a livello professionale nel 2009 dopo essere stato un «giornalista di penna». «Mio nonno faceva lo strillone - commenta - sono cresciuto a pane e giornali». Salernitano, nel 2015 ha avuto la fortuna e la capacità di farsi notare da Getty Images, una delle principali agenzie internazionali di diffusione di fotografie. Quelle di Ivan, da allora, vengono pubblicate sui testate quali l’Espresso o network quali Sky. Proprio una di queste, dal titolo “Il lamento della giovane migrante', scattata per Getty Images, ha appena vinto il MIFA – Moscow International Foto Award. «Quella foto è stata scattata a febbraio 2020 - ricorda - ero a Lesbos, per raccontare delle tragiche condizioni dei migranti che vivono in uno dei campi profughi più sovraffollati, basti pensare che ci sono 12 docce per 13mila persone. Quel giorno scoppiò una protesta dei richiedenti asilo, che dovevano aspettare anche 36 mesi, vivendo in condizioni disumane, solo per la prima intervista per la richiesta di asilo politico. Durante la protesta, la polizia bloccò la strada, ci fu tensione, lancio di lacrimogeni, di bombe stordenti e tutto questo verso un gruppo di persone inermi tra cui anziani, bambini e donne. Con quello scatto, ho catturato uno di quei momenti che, a dir la verità, umanamente non è stato facile da vivere». Interessato a raccontare la questione dei migranti, quelle di tipo sociale ed ambientale ma anche la politica e in alcuni casi, lo sport, Ivan ha seguito con i suoi scatti, i migranti della rotta balcanica.
Come mai si è focalizzato tanto proprio su questo particolare problema?
Nel pieno della guerra siriana, con i vari sbarchi nel Mediterraneo, avevo voglia di raccontare l’altra parte della storia, quella delle persone. Mi sono unito nel viaggio a piedi di alcuni migranti che attraversavano l’Europa balcanica per arrivare ad ovest. Sono stato persino arrestato per essere entrato in Europa clandestinamente. Ma quello era il modo per dimostrare che queste persone non sono dei vacanzieri che rischiano la vita per i pochi euro che ricevono dagli Stati in cui poi vengono accolti ma persone in fuga da situazioni che, spesso, non riusciamo neanche ad immaginare.
È mai rimasto in contatto con qualcuno dei migranti che ha conosciuto per questi reportage?
In Croazia avevo conosciuto dei ragazzi afghani che, anche dopo che sono andato via, hanno continuato a mostrarmi le condizioni di vita dei luoghi di fortuna in cui riuscivano a mettersi in salvo in quello che, cinicamente, viene chiamato “the game”, il gioco, per uscire dal paese, tentando e ritentando fino a che non ci riescono.
Il suo lavoro adesso ha ancora più visibilità grazie a questa foto che ha vinto il premio a Mosca.
È sicuramente un’occasione e una gratificazione per le storie che racconto. Ho inviato la foto spinto anche da alcuni colleghi, perché non ho un buon rapporto con i concorsi fotografici. Credo che per un foto-giornalista parlino le pubblicazioni. Quella foto è stata pubblicata su tantissime testate, sia in Italia che all’estero.
Nei giorni scorsi ha anche partecipato come relatore al Festival della Comunicazione dei giovani, tenutosi a San Cipriano Picentino...
Credo che i foto-giornalisti debbano fare un passo verso l’empatia perché spesso si sono trincerati su posizioni un po’ distaccate dagli altri giornalisti, nel tentativo di rivendicare il loro ruolo. Oggi non può più bastare fare una foto, raccontare una storia attraverso di essa e pubblicarla. Bisogna essere “militanti” della professione, per questo partecipo molto volentieri ad iniziative organizzate nelle scuole o ad altre come questa, per la formazione dei giovani, a cui ho parlato del mio lavoro e delle sue prospettive, coinvolgendo anche un collega che si è occupato dei movimenti migratori dall’Africa e un altro, Tony Gentile, l’autore della famosa foto di Falcone e Borsellino.
La fotografia che vorrebbe scattare e che non ha ancora fatto?
Mi interessa raccontare, quindi fotografare, i movimenti di rivendicazione sociale, femministi e trans-femministi, quelli a tutela dei lavoratori ma vorrei non doverli fotografare, perché è assurdo che nel 2021 siamo ancora qui a parlarne. Vorrei fotografare paesaggi incontaminati, che non portino i segni dell’invasione umana, paesaggi intatti ma purtroppo questo non è il mio tempo. Come molti miei colleghi foto-giornalisti, vorrei fare esperienza in contesti più delicati, in ambito bellico, cercando di far emergere le storie che sono a margine del conflitto, quelle degli ultimi.
Valentina Tafuri