Le cupole dei clan rischiano il processo per uno dei più brutali omicidi di camorra. I pm della Direzione distrettuale antimafia hanno avanzato la richiesta di rinvio a giudizio per i bellizzesi Pasquale Renna, 63 anni, padrino dell’omonimo cartello, Francesco, 69, e Alfonso Pecoraro, 62, fratelli del capo ucciso, per il collaboratore di giustizia olevanese Fedele Schipani, 63, detto Rosario ‘u pasticciere, e gli stabiesi Ferdinando Cesarano, 69, detto Nanduccio ‘e Ponte Persica, boss del clan che porta il suo nome, e Maurizio Procida, 59, detenuti per altri reati. Ora l’ultima parola spetta a Giandomenico D’Agostino, gip del Tribunale di Salerno, che dovrà decidere se consentire o meno l’esercizio dell’azione penale ai pm della Dda Maria Benincasa e Bianca Rinaldi.
Di mezzo c’è l’efferata lupara bianca ai danni del bellizzese Giuseppe Di Giorgio, ammazzato a 50 anni, punito per aver partecipato all’omicidio del boss Giovanni Pecoraro. Una vendetta crudele, quella risalente al ‘91. Sequestrato, torturato, gettato in una fossa, cinto al collo con una corda tirata a turno, colpito alla testa con un piccone e poi seppellito: Di Giorgio sarebbe morto così. La pubblica accusa contesta ai sei il concorso in omicidio premeditato, aggravato dalle sevizie, dalla crudeltà e dall’aver commesso il fatto in numero superiore a cinque persone. L’eterno cold case è stato risolto d’iniziativa dai carabinieri della Sezione operativa del Norm (guidato dai capitani Graziano Maddalena prima e Donato Recchia poi) della Compagnia di Battipaglia, agli ordini del capitano Samuele Bileti.
Di Giorgio era stato condannato insieme a Pasquale De Feo, Giulio Del Mastro e Antonio Nastro per l’ammazzatina di Giovanni Pecoraro, il padrino del clan freddato nel cuore della sua Bellizzi a settembre del 1988. Così s’arrivò all’11 gennaio 1991. Alla vittima i giudici avevano dato il permesso d’uscire di casa per lavoro: faceva l’operaio in fabbrica a Battipaglia. Uscendo di lì fu rapito e condotto in un casolare abbandonato a Olevano sul Tusciano, nei pressi della centrale idroelettrica.
La Benincasa e la Rinaldi identificano Renna, i fratelli Pecoraro e Cesarano quali «determinatori e mandanti». Alfonso Pecoraro è «organizzatore ed esecutore materiale»: attribuzione, quest’ultima, affibbiata anche a Schipani e a Procida. I tre, «dopo aver condotto Di Giorgio in un casolare e dopo averlo legato a una sedia, lo sottoponevano a torture, tra cui bruciature di sigarette sul corpo, schiaffi al volto e colpi alle ginocchia e alla testa, anche mediante l’utilizzo del calcio di una pistola, fino a fargli perdere i sensi». Pareva già morto quando Pecoraro, Schipani e Procida lo avrebbero trasportato «presso un fondo per poi seppellirlo in una buca scavata il giorno precedente». Di Giorgio, però, era ancora vivo. Quando gli uomini del commando se ne sono accorti «gli cingevano una corda al collo tirando a turno, nel tentativo di strangolarlo». Il 50enne bellizzese, tuttavia, era duro a morire: per questo Alfonso Pecoraro «lo colpiva ripetutamente alla testa con un piccone, per poi seppellire il cadavere, unitamente allo Schipani, nella buca». Le indagini s’avvalgono della collaborazione di Schipani, assistito dal penalista Andrea Ruggiero. Nel collegio difensivo gli avvocati Giuseppe Russo, Raffaele Francese, Eliana Zecca e Piera Rubano. Le persone offese sono la vedova di Di Giorgio, i figli e le due sorelle.