L’uomo “un gradino sotto Dio”: così durante la Tangentopoli degli anni ’80 fu definito il finanziere Pierfrancesco Pacini Battaglia. Gran collettore di tangenti, “Chicchi” (il vezzeggiativo usato dagli amici più intimi) si muoveva con grande duttilità tra Londra, Ginevra, Milano e Roma.
Era orgoglioso di essere un “self made man”, un uomo che si era fatto da solo. Figlio di un agricoltore, da operaio in una fabbrica di laterizi si appassionò alle speculazioni immobiliari. Poi quando la Guardia di Finanza iniziò a scavare nei suoi conti decise di andare a vivere in Svizzera, a Losanna. Nel 1981 a Ginevra aprì la sua finanziaria, la Karfinco, poi diventata la banca dei fondi neri costruiti grazie ai contratti esteri su gas e petroli per pagare tangenti ai partiti della Prima Repubblica, in particolare al Psi di Bettino Craxi. Confesserà poi ai magistrati milanesi di aver veicolato “stecche” per 50 miliardi di lire (e per questo nel processo Eni fu condannato a 6 anni), ma in altri interrogatori parlò di un giro di affari al “nero” di ben 500 miliardi.
Ecco, con i dovuti distinguo del caso ed i diversi ruoli ricoperti, anche Franco Alfieri può essere definito un politico “un gradino sotto Dio”, per la sua appartenenza – forte, radicata e organica – a un sistema di potere che da trent’anni ormai ha messo solide radici nella nostra provincia: una commistione opaca tra l’Amministrazione della cosa pubblica e l’interesse economico; un rapporto incestuoso, dove spesso gli obiettivi coincidono e si sovrappongono alla ricerca sistematica del consenso elettorale e l’arricchimento del privato.
Un sistema di potere di cui Alfieri era (ed è) tra le massime espressioni, avendo ricoperto negli anni da amministratore pubblico ruoli-chiave, gestendo ingenti flussi di risorse. Dalle varie vicende giudiziarie che l’hanno visto coinvolto però è uscito sempre indenne, pulito. Una salamandra che, come narrano le leggende popolari, essendo essa stessa una creature del fuoco, riesce ad attraversarlo rimanendo illesa. È accaduto, per esempio, per le indagini della Dda di Salerno su presunte connivenze con il clan Marotta. Accuse di scambio elettorale politico-mafioso, concussione, violenza privata e minaccia, poi archiviate.
Al di là delle pittoresche “fritture di pesce” pretese dal governatore Vincenzo De Luca per far votare “sì” durante la campagna referendaria sulla riforma costituzionale voluta dall’allora premier Matteo Renzi, Alfieri si è ritagliato sul campo il ruolo di leader nel Pd campano. Imponendosi anche grazie alla sua considerevole provvista di consenso elettorale.
Un “self made man”, insomma, che da sindaco del piccolo comune di Torchiara è salito per meriti acquisiti (anche se osteggiato all’interno del suo stesso partito) ai piani alti del Palazzo, tanto da arrivare fino a quel “gradino sotto Dio”, nel “cerchio magico” che circonda il governatore De Luca.
Inutile negarlo, il suo arresto è un terremoto politico. Le ipotesi d’accusa sono pesanti, dettagliate. Ma solo il tempo e i processi ci diranno se Alfieri è colpevole o meno. Valga dunque per tutti la regola della presunzione d’innocenza. Di certo l’inchiesta è solo agli inizi, altri filoni ben più consistenti sono sotto la lente d’ingrandimento di Finanza e Procura. Non resta che attendere, dunque, per capire se Alfieri sarà il solo a non potersi più sedere in futuro “un gradino sotto Dio”.