Prima ancora delle scadenze: ricordiamoci che il PNRR rappresenta, per larga parte, nuovo debito pubblico. Qual è la vera sfida dietro questi numeri?
È un punto di partenza che va detto con chiarezza. Il PNRR non è “denaro gratuito”: per una parte significativa è debito che si traduce in impegni complessivi. La vera sfida non è spendere, ma verificare quanto di ciò che viene speso generi davvero leva su investimenti privati e nuovo valore aggiunto nazionale. Se non crea capacità strutturale, produttività e attrazione di capitale, allora il rischio è semplice: trasformare il PNRR in debito improduttivo che lasciamo in capo alle prossime generazioni.
Partiamo dalle date, senza giri di parole: quali sono le scadenze “dure” del PNRR europeo (RRF)?
Sono tre e vanno fissate nella testa di tutti: 31 agosto 2026 per completare tutti i milestone e target; 30 settembre 2026 per presentare l’ultima richiesta di pagamento completa di evidenze; 31 dicembre 2026 come data entro cui la Commissione deve effettuare i pagamenti.
“Completati entro il 31 agosto 2026” cosa significa davvero?
Significa che conta ciò che è realmente attuato e dimostrabile entro quella data. È un punto fondamentale: azioni successive al 31 agosto 2026 non possono essere considerate per la valutazione dei milestone e target. Non è un dettaglio tecnico: è la regola del gioco.
Perché c’è anche la scadenza del 30 settembre 2026, solo un mese dopo?
Perché il PNRR è uno strumento a performance: non basta fare, bisogna rendicontare. L’ultima richiesta di pagamento, completa di tutte le prove necessarie, va inviata entro il 30 settembre 2026. Qui si gioca una parte enorme del risultato: la capacità di documentare e dimostrare.
E il 31 dicembre 2026, “cassa chiusa”, è un modo di dire o è sostanza?
È sostanza. Il 31 dicembre 2026 è la deadline entro cui la Commissione deve effettuare i pagamenti: questo implica che nel 2027 non ci saranno pagamenti RRF. Quindi non è una data “simbolica”: è il confine.
Quindi dopo il 31 agosto 2026 il PNRR finisce?
Finisce la possibilità di “mettere punti a tabellone”. Se un target non è completato entro quella data, non puoi recuperarlo dopo ai fini delle valutazioni. Poi restano gli ultimi passaggi di richiesta, valutazione e pagamenti entro dicembre, ma la sostanza della partita si chiude lì.
Cosa succede se alcuni milestone e target restano indietro?
Il rischio concreto è perdere risorse. Proprio per questo la Commissione invita gli Stati a snellire e rivedere i Piani, tenendo solo le misure che si è certi di completare in tempo. È un invito al pragmatismo: ridurre l’irrealizzabile, proteggere l’eseguibile.
È per questo che si parla di “cliff” del 2026?
Sì, perché non è una scadenza “di facciata”: è un salto di regime. Nel 2026 si chiude la finestra utile per completare e certificare. E dopo, dal punto di vista del flusso straordinario RRF, non c’è un “capitolo due”: si torna agli strumenti ordinari.
Dal suo punto di vista di imprenditore, qual è il problema numero uno per l’Italia?
La frizione tra tempi amministrativi e complessità realizzativa. Il calendario non perdona: autorizzazioni, gare, varianti, contenziosi, capacità di rendicontazione. Quando metti tutto insieme, capisci che il tema non è “se i fondi ci sono”, ma se lo Stato riesce a trasformarli in risultati certificabili entro le date.
Cosa sta chiedendo la Commissione, in concreto, ai governi?
Pragmatismo. In sostanza: fare pulizia, rimuovere ciò che non è realizzabile entro la deadline e concentrare risorse su misure “sicure”, implementabili. Meglio un Piano più snello ma eseguibile che un Piano ambizioso che poi si schianta sul calendario.
C’è spazio per proroghe?
Oggi la linea è chiara: si chiude entro il 2026. E infatti le scadenze operative vengono ribadite proprio per indirizzare le scelte dei governi.
Nel frattempo, molti italiani sentono il PNRR come un “totem” più che come cantieri visibili. È un problema di comunicazione o di sostanza?
Se la percezione resta distante è perché la sostanza è complessa e spesso invisibile: riforme, procedure, digitalizzazione, opere non immediatamente “fotografabili”. Ma il punto non è fare storytelling: il punto è arrivare al 2026 con risultati certificabili, perché il PNRR non premia le intenzioni.
Che cosa significa, per la competitività, il rischio di un “buco” nel 2027?
Significa rischio di frenata. Se il Paese si abitua a una spinta straordinaria e non costruisce continuità con strumenti ordinari e investimenti privati, l’effetto può essere brusco. Per questo insisto: il PNRR deve diventare capacità strutturale, non dipendenza da un flusso temporaneo.
Come si prepara il “dopo 2026” in modo serio?
Con due mosse: primo, nel 2025–2026 si chiude ciò che è davvero chiudibile, senza inseguire progetti irrealistici rispetto alla deadline; secondo, si costruisce un ponte 2027–2028 su programmazione ordinaria e investimenti privati. Bisogna pianificare la chiusura e fare scelte coerenti con il tempo rimasto.
In una frase: qual è il suo messaggio finale ai lettori?
Che il 2026 non è una data lontana: è un calendario chirurgico. E tra 31 agosto, 30 settembre e 31 dicembre si decide la differenza tra fondi annunciati e fondi effettivamente incassati dall’Italia.

