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Quanto è bella la storia “misteriosa” e custodita del derby

di Dario Cioffi
Di dettagli calcistici non ho memoria, dell’ambiente invece sì
Quanto è bella la storia “misteriosa” e custodita del derby

Era l’autunno, o forse l’inverno, del 1993. Google oggi non aiuta, né l’AI che a tutto dà risposte (mica sempre precise) se la sente di lanciarsi in circostanziate ricostruzioni temporali. Quant’è bella la storia “misteriosa” custodita (solo) nel fascino dei ricordi delle persone…
Qualcuno tra chi legge ne saprà e avrà memoria più di chi scrive, ma accetto il rischio. E butto giù quel che nella mente è ancora nitido, nebbia compresa.

Tutto al presente (storico), come ogni bella storia vuole

È un infrasettimanale, la Nedo Nadi è aperta e alle quattro del pomeriggio c’è la mia lezione di scherma. Mi ci accompagna nonno Edoardo, con il rituale suo, dopo il pranzo sempre sontuoso di nonna Renata: prima la barba da Gigino, il mitico barbiere di via Manzo, poi a piedi fino a Piazza Renato Casalbore. Nel salone di Gigino, pieno come a tutte le ore d’ogni giorno e con una copia del Mattino ambitissima e letta a turno da chi è in attesa, si sentono da lontano cori da stadio.

“Ch’è ‘sto burdello, Gigi’?”, chiede nonno che il pallone non l’ha mai seguito granché. “C’è Pro Salerno-Pro Cavese”, risponde il barbiere che invece – pure per deformazione professionale – del calcio doveva saper tutto, o almeno stare sempre sul pezzo per “moderare” le chiacchiere dei clienti. In realtà in quella risposta Gigino lascia un “refuso”, ché “Pro” era solo la seconda squadra della città di Salerno, mentre la Cavese è rinata come “Intrepida”, ripartendo dall’Eccellenza al tramonto dei suoi migliori anni.

È il 1993, s’è detto, e l’eco dei derby infuocati tra Salernitana e Cavese in serie C è ancora molto forte, in quella stagione in cui i granata di Delio Rossi preparano l’inizio della grande scalata d’una scatenata Bersagliera. Quella sfida del girone B del massimo campionato regionale, che oppone un’altra rappresentante della città capoluogo ai “cugini” e rivali di Cava de’ Tirreni, fa riempire il Donato Vestuti che nel frattempo – da tre anni – è diventato stadio “succursale”, inchinatosi al nuovo e principesco Arechi.

Di dettagli calcistici non ho memoria, dell’ambiente invece sì

In anticipo come sempre, consegnate 4mila lire a Gigino e profumatissimo di dopobarba, il nonno mi lascia in palestra per andare a riprendere la sua Duna, affidandomi al prof Gianni De Martino, un’icona della Nedo Nadi, e dello sport salernitano in genere, d’ora e d’allora. È giorno di preparazione atletica, e inconsapevole, come un bambino d’otto anni che segue le sue routine, scoccate le ore 16, primo tra i miei compagni che arrivano alla spicciolata, m’incammino verso “il campo sportivo” pensando al solito riscaldamento sulla pista d’atletica.

Il parcheggio della piazza è pieno zeppo, i cori dei tifosi ora li sentiamo sopra la testa, perché la palestra ha sede sotto la Curva “vecchia”, e senza capire sino in fondo né chiedere cosa stia accadendo dico al prof: “Mi avvio, Gianni. Ci vediamo al campo?”. Il prof mi guarda, si fa una risata e mi spiega: “Oggi al Vestuti c’è una partita. Non ci fanno entrare, restiamo ad allenarci qui. I derby contro la Cavese sono una bolgia, sono arrivati tantissimi tifosi ospiti e migliaia di sostenitori della Salernitana oggi si sono ritrovati per incitare la Pro Salerno. È campanilismo! Ma proprio tu che segui il calcio, davvero non ne hai mai sentito parlare?!”.

Ne avrei sentito parlare tantissimo, già in quegli anni, mentre il pallone entrava nella mia vita segnandomi lungo il cammino di bambino, adolescente, ragazzo e poi adulto, da cronista che ha avuto la fortuna non solo di viverlo ma pure per lunghi tratti di raccontarlo.
Un grande rimpianto che si rafforzava nel tempo, convivendo con il ricordo di quel derby del Vestuti rimasto per me partita-fantasma, solo con il sonoro dei “chi nu’ zomba” scanditi dall’una e dall’altra parte, è stato per quasi due decenni non aver mai visto un Salernitana-Cavese. Sarebbe accaduto solo nel 2007, in serie C.

Tutto – ancora – al presente (storico), come ogni bella storia vuole

Lavoro come giornalista – collaboratore per inquadramento, “abusivo” per i romantici – al quotidiano “il Salernitano” già da un bel po’, ma non ho ancora compiuto 22 anni e non sono abbastanza esperto né all’altezza per esser “la firma della partita”. Perché internet ancora non è esploso, la gavetta è – per fortuna! – un passaggio obbligato, e nessuno al tempo può autoproclamarsi “capo”, “direttore” o “responsabile” di qualcun altro dopo aver scritto qualche pezzo mai corretto da nessuno. Ogni riferimento a quel che sarebbe seguito nel giornalismo è – come nei titoli d’inizio o di coda di certi film – puramente casuale!

Nel “timone” di redazione, però, mi affidano sempre altri articoli sulle partite a cui orgogliosamente, già da un triennio, entro come “stampa accreditata”: sugli “spogliatoi” ho di recente scalato gerarchie – oppure, come si direbbe oggi ché fa più figo, “fatto l’upgrade” – passando dalle interviste agli ospiti a quelle dei padroni di casa, ma il pezzo a cui tengo di più è “la partita del tifo”. Lo firmo sempre io, riportando striscioni e curiosità, a volte venti righe “schiattate” a fondo pagina accanto ai numeri estratti al Lotto, altre più corposo e dignitoso, magari di taglio centrale.

Quel giorno, per Salernitana-Cavese che non si (ri)gioca da una vita, so che si può fare di più. Chiedo una pagina. Me la concedono: 60 righe e otto fotografie. Le scatto da solo, con la mia macchinetta digitale (è fatto abbastanza inconsueto e neppure regolamentato, in quel momento), dalla Tribuna Azzurra. Per non perdermi neanche uno striscione, corro per 90 minuti, avanti e dietro, dal lato della Curva Sud granata gremita alla Nord in cui s’assiepano quasi 3mila ospiti con altrettanti berrettini biancoblu. I salernitani iniziano con “Al Vestuti senza un segno, dell’Arechi non sei degno”. I cavesi rispondono ai “pisciaiuoli” con “La tua storia è fatta di reperti, l’ultimo nell’acquario di Aliberti”. Ancora la Sud: “Cosenza, Atalanta, Piacenza, Genoa… Cavajuolo quante identità, oggi finalmente tifi per la tua città”. E i metelliani: “Noi con coerenza dalla B all’Eccellenza, la vostra sola via era la Terza Categoria”.

Va così per una partita intera – che sul campo finirà con uno 0-0 specchio fedele della paura di non perderla – a colpi di slogan e sfottò, tra carta, pittura e cori a squarciagola.
È tutto quello che ci mancherà oggi, diciott’anni e mezzo dopo. In un derby con una tifoseria soltanto. Come accadrà nel girone di ritorno a campi invertiti. Il calcio verrà in soccorso, lasciando felici i vincitori, “sfottuti” gli sconfitti e chissà chi dei due più vicini al sollievo o al rimpianto in caso di pareggio. Saranno sentimenti veri, ovviamente. E però parziali, in fondo incompiuti. Il segno dei tempi…

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